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Il pomodoro di Pachino e una storia che non ti aspetti

Immaginate di scoprire che uno dei simboli più iconici della cucina italiana in realtà è nato in un laboratorio in un’altra parte del mondo. Ecco, benvenuti nel mondo del pomodoro di Pachino, dove la tradizione siciliana incontra l’innovazione israeliana in una storia che sembra quasi inventata.

Ogni volta che raccontiamo questa storia, la reazione è sempre la stessa: occhi sbarrati, incredulità, qualche “Ma davvero?”. Eppure è tutto documentato, nero su bianco. E no, non è nemmeno un segreto così ben custodito. Ma andiamo con ordine, perché questa storia merita di essere raccontata dall’inizio.

Quando Israele Incontrò la Sicilia

Siamo nel 1989. L’azienda israeliana Hazera Genetics – specializzata in biotecnologie agricole – introduce in Sicilia due nuove varietà di pomodori: il ciliegino “Naomi” e la varietà “Rita”, a grappolo. Già, Naomi e Rita. Nomi che in un campo siciliano suonano decisamente… particolari.

Ma come hanno fatto questi pomodori a diventare così irresistibili? Sono stati selezionati per possedere delle caratteristiche genetiche naturali molto particolari – chiamate tecnicamente “rin” e “nor” – che permettono loro di rimanere perfetti per 2-3 settimane dopo la raccolta. Il tutto ottenuto attraverso incroci e ibridazioni; per carità, non stiamo parlando di OGM, bensì di prodotti selezionati (una pratica molto diffusa in agricoltura). Una bella rivoluzione per chi li trasporta, li vende e soprattutto li mangia.

E qui succede la cosa più interessante. Questi pomodori israeliani, arrivati nei campi di Pachino, Portopalo di Capo Passero, Noto e Ispica, hanno trovato un ambiente semplicemente ideale: acqua leggermente salmastra, sole generoso, temperature miti tutto l’anno. Il “terroir” siciliano ha trasformato quello che era nato come esperimento in qualcosa che sa di mare, di sole e di Sicilia autentica.

All’inizio, questi pomodori nuovi non hanno conquistato subito tutti. Troppo diversi da quelli tradizionali, troppo… insoliti. Ma gradualmente hanno iniziato a diffondersi e conquistare palati e mercati. Nel giro di pochi anni, quello che era partito come un esperimento è diventato una delle eccellenze dell’agricoltura siciliana.

I pomodori di Pachino oggi li troviamo ovunque: nei mercati italiani, in quelli internazionali, sulle nostre tavole praticamente ogni giorno. E quando diciamo “pomodoro di Pachino”, tutti pensiamo al ciliegino rosso a grappolo. Ma la denominazione IGP in realtà protegge una piccola famiglia: ci sono il protagonista ciliegino, il tondo liscio verde e leggermente acidulo, e il costoluto, che era già lì prima che arrivassero i “nuovi arrivati” da Israele.

Ed ecco il paradosso più interessante di questa storia: un prodotto pensato e selezionato a migliaia di chilometri di distanza è diventato così siciliano che oggi è impossibile immaginare la cucina dell’isola senza. I produttori delle province di Siracusa e Ragusa hanno fatto proprie queste varietà al punto che dal 2003 sono protette da consorzio e tutelate dal marchio IGP.

Oggi, quando mordiamo un pomodorino di Pachino, stiamo assaggiando il risultato di un incontro particolare: l’innovazione israeliana che ha creato le varietà e il terroir siciliano che le ha rese uniche al mondo. La dimostrazione che a volte i prodotti migliori nascono quando mondi lontani si incontrano nel posto giusto.

E forse, in fondo, è proprio questo il vero miracolo del pomodoro di Pachino: non essere nato siciliano, ma essere diventato più siciliano della Sicilia stessa.

Attenti! Il segreto è nella preposizione

E ora vi sveliamo un trucco che vi cambierà per sempre la spesa al supermercato. Il pomodoro di Pachino non è il pomodoro Pachino. Sembra un gioco di parole, ma quella piccola preposizione “di” fa tutta la differenza del mondo.

Quando al supermercato leggete “pomodoro Pachino” (senza “di”), state comprando un prodotto che richiama la qualità ma non è il vero IGP. Solo il “pomodoro DI Pachino” è quello autentico, coltivato nelle zone protette tra Pachino, Portopalo, Noto e Ispica. La legge consente infatti di richiamare nel nome la qualità anche senza essere il prodotto originale, generando non poca confusione tra i consumatori.

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