Ci sono un trentino, un abruzzese e un pugliese… e no, non è una barzelletta

Ci sono un trentino, un abruzzese e un pugliese che si incontrano… e stavolta non finisce con una battuta, ma con tre bottiglie di rosato che meritano davvero di essere scoperte. Già, perché se più o meno da sempre siamo tutti concentrati a discutere se il Barolo è meglio del Brunello, in giro per l’Italia si stanno facendo cose interessanti anche con i rosati. E adesso che l’estate è arrivata e si (ri)scopre improvvisamente che “il rosé va di moda”, forse è il caso di raccontarne tre che meritano davvero.
Confessiamolo: fino a qualche anno fa, quando sentivamo “vino rosato” pensavamo tutti a quel “vinello” tendente al dolciastro che si beveva in spiaggia. Roba da aperitivo veloce, niente di serio. Poi è arrivata la moda dei rosé di Provenza e abbiamo iniziato a capire che forse c’era qualcosa di più. Ma la verità è che anche qui in Italia si fanno rosati interessanti da tempo, solo che non li consideravamo abbastanza. Succede spesso a noi “italians”: si preferisce quello che viene da lontano, invece di apprezzare (e conoscere) quello che abbiamo in casa.
È ora di rimediare a questa svista. Perché se è vero che il vino rosato è probabilmente il primo tipo di vino che l’uomo abbia mai prodotto – il più semplice da ottenere, basta una macerazione breve e viene fuori rosa – è altrettanto vero che tra il “viene fuori rosa” e il “viene fuori buono” c’è tutta la differenza del mondo. E i tre vini che vi raccontiamo dimostrano che questa differenza, anche in Italia, la sappiamo fare eccome.

Il trentino che non ti aspetti
Partiamo dal nostro trentino: il Vigneti delle Dolomiti IGT – Rosa Ulzbach di De Vescovi Ulzbach. Ora, quando uno pensa al Trentino pensa ai bianchi come il Pinot Grigio, o alle bollicine. Il rosato? “Mah”: non è la prima cosa che viene in mente. E invece ecco qua questo Rosa Ulzbach che ti fa ricredere su tutto.
Già il nome racconta una storia: i suoi estimatori più affezionati lo ricordano ancora come “Kretzer”, dalle antiche ceste di vimini che i viticoltori usavano per la vendemmia; oggi l’azienda lo chiama semplicemente Rosa Ulzbach. Ma il vero colpo di genio è aver preso il Teroldego – il vitigno principe del Trentino, quello che di solito fa rossi importanti – e averlo trasformato in rosato. È come prendere un tenore e fargli cantare una canzone dolce: se sa fare il suo mestiere, il risultato è sorprendente.
E De Vescovi Ulzbach sa fare il suo mestiere: coltiva in biologico (anche se senza certificazione) perché crede che sia il modo giusto di rispettare il territorio. Quel rosa corallo che ha nel bicchiere sembra dipinto dall’alba sulle Dolomiti, e quando lo annusi ci trovi violetta e geranio che si mescolano a fragoline di bosco. È come se avessero preso l’aria di montagna e l’avessero imbottigliata insieme all’uva.

L’abruzzese che fa sul serio
Spostiamoci in Abruzzo con il Terre di Chieti IGT Rosato BIO “Duca Minimo” di Cascina del Colle. Il nome ha una storia che merita di essere raccontata: “Duca Minimo” era infatti il modo in cui amava presentarsi Gabriele D’Annunzio, forse l’abruzzese più famoso del mondo. Il Vate, con la sua tipica vena autoironica, giocava sui paradossi: lui che era tutto fuorché “minimo” – poeta, scrittore, aviatore, amante leggendario, politico – si definiva con falsa modestia “il Duca Minimo”. È un atteggiamento molto abruzzese, questo: avere sostanza ma non farne troppo sfoggio, fare le cose per bene ma senza troppi fronzoli.
E infatti questo rosato è proprio così: serio senza essere serioso. È biologico, il che significa che il produttore ha deciso di complicarsi la vita per fare un vino più pulito. Non è marketing, è una scelta precisa: rinunciare a tutti i trucchetti della chimica moderna per lasciare che sia il territorio a parlare. E qui parliamo di Montepulciano in purezza, l’uva che in Abruzzo sanno lavorare meglio di chiunque altro.
Il risultato? Un rosato che profuma di ciliegia e marasca con quelle note floreali che raccontano subito la qualità del lavoro. E quando lo assaggi ti avvolge, ti ammalia e ti “riempie” nel senso più letterale del termine. Ha una freschezza che sveglia e una corrispondenza perfetta tra quello che si sente al naso e quello che si sente in bocca. Che sembra una cosa ovvia, ma non lo è affatto.

Il pugliese che continua una tradizione
E arriviamo al nostro pugliese: il Salento Rosato IGP – Albarossa delle Cantine Palamà. Qui c’è una storia che merita di essere ricordata. Nel 1943, quando un generale americano chiese a Leone de Castris un rosato dal “nome rigorosamente americano”, nacque il Five Roses – il primo vino rosato imbottigliato e commercializzato in Italia. Ottant’anni dopo, il Salento continua a essere terra di grandi rosati, magari meno famosi, ma comunque autentici testimoni di una tradizione consolidata.
Le Cantine Palamà, con questo Albarossa, dimostrano perfettamente questa continuità. È un Negramaro in purezza che ha quel rosa intenso e brillante tipico dei grandi rosati del Sud, con profumi di lampone e ciliegia che si intrecciano a note floreali di viola e rosa. Al palato c’è quella salinità che arriva dal mare, quella mineralità che ti ricorda che queste vigne crescono a pochi chilometri dall’Adriatico. È un rosato che sa essere fresco senza rinunciare al carattere, moderno senza dimenticare da dove viene.
Tre storie, un unico filo… rosa
Quello che accomuna questi tre rosati, a prescindere dai territori e dalle tecniche, è una cosa semplice: sono vini fatti da persone che ci credono davvero. Non sono il “prodotto di ripiego” che si fa quando avanza un po’ di uva. Sono progetti pensati, studiati, voluti.
E si sente. Si sente nel bicchiere, si sente quando li abbini al cibo. Provate l’Ulzbach con gli spätzle allo speck (se volete fare i puristi trentini) o anche solo con un risotto delicato. Il Duca Minimo è perfetto con la zuppa di pesce all’abruzzese o con una bella grigliata di pesce fresco. L’Albarossa si trova a casa sua con i carpacci di tonno o anche con un sushi ben fatto – sì, avete letto bene, sushi e Negramaro vanno d’accordo, chi l’avrebbe mai detto?
Sono buoni, sono diversi, e sorprendono per la loro qualità rapportata a un prezzo di assoluto buon senso.
Ognuno di questi tre vini ha una sua storia da raccontare. Noi abbiamo deciso di raccontarle insieme creando, speriamo, una storia ancora più interessante che lega con un “filo rosa” tre regioni d’Italia particolarmente vocate per la viticoltura di qualità. Perché è proprio questo che fa Ghusto: cerca storie da raccontare e le condivide con chi ha voglia di conoscere le persone, i territori e le scelte che stanno dietro a ogni prodotto, trasformando un semplice acquisto in una scoperta, in un piccolo viaggio attraverso l’Italia che vale la pena di essere vissuto.